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A scuola, io ero per tutti la sorella del disabile”.“La disabilità di mio fratello mi lascia impotente quando vedo che viene lasciato solo” sono alcune testimonianze di siblings che fanno riflettere

 

Comprendere cosa sia la disabilità nella quotidianità di qualcuno che nasce o diventa fratello o sorella di una persona disabile è un punto di vista che spesso viene trascurato, ma che ha molto da dirci e che molto merita di essere indagato. Parleremo in altro momento nel dettaglio di quanto e come l’avere un fratello disabile travolga e investa la vita del sibling, così come ce lo spiegano e ne studiano la psicologia e le neuroscienze. Qui invece vorrei toccare con mano la questione reale, riportando alcune testimonianze dirette di ragazzi – tutti giovanissimi – che hanno raccontato le loro esperienze di fratello o sorella di persona disabile alla platea dei partecipanti del convegno “Specialmente fratelli – la sfida di crescere con un fratello disabile” tenutosi a Padova lo scorso 27 marzo. Lo voglio fare perché è stata una esperienza emotivamente molto forte, potente e da un certo punto di vista destabilizzante; di certo di straordinario valore. I partecipanti stessi, in una sala strapiena, muta e commossa, possono testimoniare come le parole di questi giovani abbiano contribuito, forse più di molte spiegazioni professionali, a comprendere quanto questo rapporto incredibilmente stretto, esclusivo e unico possa essere fonte di gioia, disagio, amore.
UN PESO CHE MI HA SOFFOCATO – Il primo a intervenire è Alessandro, 35 anni, fratello di una Spina Bifida di trent’anni. La sua testimonianza è forte, diretta, non lascia niente al buonismo e assai poco, purtroppo, all’ottimismo. “Ho sempre vissuto la disabilità di mio fratello come un peso che mi ha soffocato”, apre il suo intervento. Spiegherà poi: “La disabilità di mio fratello mi lascia impotente quando vedo che le porte si chiudono, viene lasciato solo, riceve pochi inviti ad uscire. Mio fratello ha trent’anni: molti alla sua età sono fidanzati, sposati…è difficile accettare questa distanza, questo rifiuto da parte degli altri. E io come fratello ne soffro. Il problema, a differenza magari di disabilità di tipo intellettivo, è che mio fratello capisce, è consapevole della situazione”.

 

LA PAURA DEL FUTURO CHE ARRIVA – Anche Ilaria, neanche trent’anni, è una sibling maggiore. Suo fratello Matteo è nato quando lei aveva sedici anni, e il nucleo familiare di lei – figlia di ragazza madre – si stava finalmente ricomponendo, grazie al nuovo compagno di mamma, che l’aveva anche adottata. “Quando è nato e abbiamo scoperto che aveva la Sindrome di Prader-Willi ho provato una sentimento di rabbia nei suoi confronti: lo ritenevo colpevole di aver minato la felicità della nostra famiglia. All’inizio ho addirittura rifiutato di far visita a lui e a mia madre in ospedale. Posso dire che gli volevo bene ma io non stavo bene. Poi ho spostato la rabbia da lui alla sua malattia, e la prospettiva è completamente cambiata. Oggi ovviamente siamo inseparabili, io mi sono rapportata alla disabilità anche al di fuori della mia famiglia (sono educatrice specializzata in riabilitazione equestre), e questo mi ha aiutato molto. Adesso, è innegabile, inizio a sentire il peso della sua crescita e la mia responsabilità a riguardo. Le implicazioni della sua disabilità sul suo futuro e sul mio. La preoccupazione sulla sua salute futura, ma anche penso molto ai miei genitori che sentono la colpa di lasciarmi questo peso. Io cerco di concentrami sulle cose positive e non pensarci per ora”.

 

ESSERE PER TUTTI LA SORELLA DEL DISABILEIrene è la terza di tre fratelli; quello di mezzo è Luca, con Spina Bifida. “Da che mi ricordi, la vita della famiglia è sempre stata organizzata secondo le sue esigenze: la mattina ci sono da fare cateteri, docce, colazioni per Luca…li fa la mamma. I nostri genitori ci hanno sempre cresciuti spiegandoci i bisogni di Luca. Quello che mi ricordo? Che ai compleanni non si potevano usare palloncini, perché Luca è allergico. A scuola, poi, io ero per tutti la sorella del disabile, ma da parte dei compagni c’era solo curiosità. Ho il mio carattere, ma le maestre attribuivano il mio modo di essere al fatto di avere un fratello disabile: è questo che dicevano ai miei. Nonostante Luca sia al centro della famiglia, i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla: ho sempre fatto gli sport che volevo, mi hanno lasciato fare”. L’impotenza e le paure del futuro emergono dolorosamente tra le righe di queste parole, che Irene pronuncia mentre le si incrina la voce: “Luca adesso passa la mattina in un centro, ma ora dimostra insofferenza. Non vuole uscire molto….”.

 

GENITORI, FATECI DECIDEREGabriele è il fratello di Alessandro, più grande di lui di cinque anni – sul palco con lui, sulla sua carrozzina e le tavoletta per parlare. Alessandro ha una Tetraparesi Spastica Distonica, ovvero – spiega Gabriele – “se vuole alzare una mano può essere che gli parta una gamba: non ha il controllo volontario dei muscoli”. Il discorso di Gabriele è quello di un fratello che, dal suo vissuto, dà dei consigli. “Uno: fate sentire la persona disabile parte di un gruppo. Non serve fare chissà che. Gli basta davvero essere calcolato come persona”. Lo dice perché una cosa che lo ha fatto soffrire è stato sentire su di sé la responsabilità del fatto che suo fratello sia accettato: “E’ tremendo, questo, per un sibling”. E, altra cosa che i genitori dovrebbero evitare, rispetto a questo delicato rapporto, secondo Gabriele: non dare al sibling l’impressione che si sia già deciso che lui sarà obbligato a occuparsene nel futuro: “Per un fratello è una cosa che fa soffrire, ed è difficilissimo parlarne”.

 

FRATELLI ADULTI COMPLICIRiccardo è il fratello maggiore di Giulia (e di Corrado), lei ha la Sindrome di Down, impegnatissima fra sport e altre attività, lei 33, lui 35 anni. “Capii alle elementari che avere una sorella diversa mi portava a essere vulnerabile”, dice Riccardo. “Ricordo che la concentrazione maggiore di attenzioni, in famiglia, era su Giulia. Le maestre stesse dicevano a mia mamma: stia tranquilla che Giulia se la cava; pensi anche agli altri due che ha a casa! Oggi il rapporto con Giulia è splendido: lei è super impegnata con lo sport, “abbiamo partecipato qualche anno fa agli Special Olympics negli Usa – l’ho accompagnata io – ed è stata una esperienza straordinaria. Inoltre Giulia ha un feeling straordinario coi miei due bambini: credo che loro riescano a vedere in lei la straordinaria persona che è”.

 

IL PUNTO DI VISTA DEL FRATELLO DISABILE – Interessante è stata anche la voce dall’altra parte, ovvero quella del fratello con disabilità. A raccontarcela c’era Stefano, 27 anni, sul palco con la sua carrozzina, a spiegarci con una buona dose di ironia che suo fratello lo aiuta a non adagiarsi. “Io sono un diversamente attivo: sono di una pigrizia abissale, e aspetto sempre che gli altri facciano le cose per me. Mio fratello, sedici anni, mi punzecchia, mi dice che devo arrangiarmi. E ha ragione. E poi, visto che so che odio questo termine, mi chiama scherzosamente handicappato: “così ti alleni a rispondere a quelli che te lo usano contro con cattiveria”, dice. E’ uno sprone, insomma, ma anche un compagno di attività: “Siamo andati a Roma a seguire il rugby insieme: lui dice che sono il solito privilegiato perché entro gratis dappertutto, e ne approfitta anche lui…”.

 

QUELLO CHE MI HA INSEGNATO MIO FRATELLO – Molto toccante è stata, infine, l’esperienza di un sibling adulto, letta dallo scrittore Luigi Dal Cin. E’ il racconto di un fratello maggiore, la forte gelosia da bambino perché i genitori si dedicavano a Paolo, due anni più piccolo. “Io allora facevo capricci col cibo (col quale ancora oggi ho qualche problema), mi ammalavo spesso. Quando aveva delle crisi epilettiche avevo sempre paura che potesse morire, così a volte di notte ricordo che stavo sveglio per sentire se respirava. Ricordo il fastidio che provavo ad essere osservato quando andavo in giro”; è un imbarazzo che da adulto si è trasformato in disagio a stare in luoghi pubblici, ancora oggi.
Poi questa testimonianza tocca un aspetto spesso frequente nei siblings: il senso di colpa. “Mi impedivo spesso di fare delle cose, pensando che lui non le poteva fare. Un esempio: non mangiavo le paste ai compleanni perché sapevo che lui non le poteva mangiare. Il senso di colpa è sempre stato molto forte, e mi ha spesso fatto vivere le cose a metà”.
Strascichi, insomma, che rimangono nel presente: “Ora posso dire che, anche se i disagi dell’infanzia non ci sono più, ci vuole molto tempo perché passino. Tuttavia credo anche che mi abbiano dato una sensibilità diversa”. “E poi, Paolo mi ha insegnato a vivere: a vivere nel presente…Paolo vuole vivere sempre! Lo hanno sempre “buttato” in mezzo alla gente, e lui ci sta! Mi ha anche insegnato la gioia e l’ironia: è lui che scherza sui suoi problemi. E mi ha insegnato l’amore: quello che dà e quello che chiede”.

L’angoscia dei genitori per il “dopo di loro”, quando i propri figli dovranno affrontare la vita da soli, con la loro disabilità, senza nessuno che se ne prenda cura. Per la prima una legge dello Stato sul “Dopo di noi” prova a dare loro una risposta.

90 milioni di euro previsti per il 2016

Con 312 voti a favore il testo unificato “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” è stato approvato martedì pomeriggio in seconda lettura dalla Camera dei deputati, dopo le modifiche del Senato che avevano cercato di recepire i suggerimenti delle associazioni dei familiari. Contrario il Movimento 5 stelle, pur condividendo le finalità della legge. «Le associazioni delle persone con disabilità e i loro familiari hanno chiesto più servizi – afferma la deputata M5S, Giulia Di Vita –. Invece, con le agevolazioni previste per negozi giuridici prettamente privati, il provvedimento aiuta solo quelle famiglie che hanno già una disponibilità economica, cioè patrimoni che possono lasciare ai loro figli; quindi, potrà usufruire della legge una platea molto ristretta di persone con disabilità». «Con questa legge lo Stato si assume un impegno per dare risposte alle persone più fragili e restituire un po’ di serenità a tanti genitori – ribatte Ileana Argentin, prima firmataria di una proposta di legge poi confluita nel testo unificato approvato dalla Camera – . Ora finalmente ci sono fatti concreti perché per la prima volta c’è un fondo sociale specifico, pubblico, per il “dopo di noi”, con 90 milioni già previsti dalla legge di stabilità per il 2016».

Cosa prevede il provvedimento

Il provvedimento, composto da 10 articoli, disciplina le misure di assistenza, cura e protezione per le persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, in quanto sono venuti a mancare entrambi i genitori o poiché gli stessi non sono in grado di fornire un adeguato sostegno. Il testo modificato dal Senato estende le tutele anche alle persone con disabilità che, pur avendo i genitori ancora in vita, non possono beneficiare del loro sostegno. È quindi prevista la progressiva presa in carico della persona interessata già durante l’esistenza in vita dei genitori, ovvero “durante noi” e, inoltre, si specifica che «le misure sono definite con il coinvolgimento dei soggetti interessati e nel rispetto della volontà delle persone con disabilità grave, ove possibile dei loro genitori o di chi ne tutela gli interessi».

In attesa dei Lep

L’articolo 2 fa riferimento al decreto che dovrà essere approvato sui Livelli essenziali delle prestazioni assistenziali (Lep) nel campo sociale, diritti che dovranno essere garantire su tutto il territorio nazionale. In particolare, nelle more del completamento del procedimento di definizione dei Lep, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con quello dell’economia e previa intesa in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni, definisce gli obiettivi di servizio per le prestazioni da erogare, con decreto da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge.

Rimanere a casa

La legge istituisce (all’art. 3) il «Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare» presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con una dotazione di 90 milioni di euro per il 2016, di 38,3 milioni per il 2017 e di 56,1 milioni annui a decorrere dal 2018. Il Fondo è destinato, in particolare, ad «attivare e potenziare programmi volti a favorire percorsi di deistituzionalizzazione, di supporto alla domiciliarità in abitazioni o gruppi-appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare e che tengano conto anche delle migliori opportunità offerte dalle nuove tecnologie, al fine di impedire l’isolamento delle persone con disabilità grave».

Limiti a soluzioni abitative extrafamiliari

In seguito alle critiche delle associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari che temono, dopo di loro, il ricovero in istituto dei loro cari, al Senato erano stati introdotti dei limiti alla possibilità di ricorrere a soluzioni abitative extrafamiliari, seppur temporanee e in caso di emergenza. Ora il nuovo testo dell’articolo 4 prevede che sarà possibile realizzare solo «ove necessario e, comunque, in via residuale, nel superiore interesse delle persone con disabilità grave, interventi per la permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per far fronte ad eventuali situazioni di emergenza, nel rispetto della volontà delle persone con disabilità grave, ove possibile, dei loro genitori o di chi ne tutela gli interessi».

Polizze assicurative, trust e altri negozi giuridici

Per i premi assicurativi sul «rischio di morte finalizzato alla tutela delle persone con disabilità grave accertata» l’importo che sarà possibile detrarre dalle tasse passa da 530 a 750 euro. Uno dei punti più contestati della legge approvata in prima lettura dalla Camera, è stato il trust (istituto giuridico che garantisce una protezione legale tramite un rapporto fiduciario tra chi dispone di un bene e lo affida a un soggetto che deve amministrarlo in suo nome ndr) in favore di persone con disabilità grave. Il principale timore dei genitori che non hanno un patrimonio da lasciare ai loro figli è che possano essere ricoverati in istituti o residenze protette, quando loro non ci saranno più. Il Senato ha accolto alcune richieste delle associazioni, ampliando esenzioni ed agevolazioni tributarie previste per i trust ad altri negozi giuridici già esistenti, quindi con una maggiore possibilità per le famiglie di scegliere. Il nuovo articolo 6 prevede che i trasferimenti di beni (materiali o immateriali) per causa di morte, mediante donazione, trust o a titolo gratuito, saranno esonerati dal pagamento dell’imposta di successione e donazione a condizione che «perseguano come finalità esclusiva l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità grave, in favore delle quali sono istituiti».

fonte

http://www.corriere.it/salute/disabilita/16_giugno_14/disabili-legge-dopo-noi-quando-genitori-non-ci-saranno-piu-4008f2b2-3248-11e6-9479-1c0658e56669.shtml

Uno dei tasselli più qualificanti della riforma della scuola è costituito dall’intervento sul sostegno che prevede un cambiamento significativo nell’inclusione dei disabili nel sistema educativo italiano. La riforma del sostegno prevede, tra le altre cose, una formazione maggiore per gli insegnanti specializzati sulle diverse forme di disabilità.

Davide Faraone, il responsabile scuola per il Pd, ha presentato il progetto di riforma del sostegno scolastico spiegando “La proposta fa cardine su quattro aspetti principali:

  • formazione degli insegnanti e continuità educativa;
  • garanzia dei diritti degli alunni;
  • migliore organizzazione territoriale;
  • rapporti con le famiglie”.

Con norme apposite si intende garantire la continuità educativa affiancandola, laddove è necessaria, con l’assistenza nell’istruzione domiciliare ma si è prevista anche la possibilità di somministrare farmaci a scuola. Una vera rivoluzione la proposta di legge elaborata dallaFish e sostenuta dal Pd e dallo stesso ministro Giannini, con la quale si vuol provare a superare la delega al docente di sostegno e si prova a puntare, appunto, alla formazione dei docenti stessi.

La proposta ha origine da un testo presentato dalla deputata Pd Katia Zanotti nel 2006, il testo però non ebbe seguito a causa della fine della legislatura lasciando alla scuola tutte le criticità legate all’inclusione scolastica.

L’originaria proposta di legge del 2006 è stata ripresa, poi, quando nel 2012 fu emanato il Dpr del 4 ottobre con il quale veniva approvato dal Governo il Piano d’azione per attuare la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006. La proposta di legge fu integrata e arricchita con soluzioni più attuali e include, ad oggi, 17 articoli. Di seguito la sintesi dei punti della proposta di legge:

  • Il progetto di inclusione dovrà essere preso in carico da tutti i docenti curriculari e non solo da quelli di sostegno “attraverso una partecipazione corresponsabile alla predisposizione, all’attuazione e alla verifica del Piano Educativo Individualizzato”. Si pone l’accento anche sull’ “’obbligo di formazione iniziale ed in servizio per i dirigenti e per i docenti sugli aspetti pedagogico-didattici ed organizzativi, dell’inclusione scolastica”. L’articolo 1 della proposta di legge prevede, come anticipato sopra, la garanzia di poter somministrare farmaci durante l’orario scolastico laddove ci sia una prescrizione sanitaria sulle modalità a cui si aggiunge anche la “individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni scolastiche, sanitarie e sociali necessarie a realizzare l’inclusione scolastica”. Tali obiettivi e tali garanzie saranno estese anche a tutti gli alunni con Bes.
  •  Per l’inclusione sociale delle persone con disabilità è stata prevista l’istituzione di un Comitato interministeriale presso la presidenza del Consiglio dei Ministri per indirizzare l’inclusione e la tutela dei diritti delle persone con disabilità. – Per gli insegnanti di sostegno sarà richiesta una preparazione specialistica attraverso una laurea per il sostegno attraverso l’istituzione di quattro diversi indirizzi per il sostegno didattico: uno per la scuola dell’infanzia, uno per la primaria, uno per la scuola secondaria di primo grado e uno per la scuola secondaria di secondo grado.
  • Nella proposta di legge è dedicato un ampio spazio al percorso formativo dei docenti di sostegno, sia iniziale che in servizio, ma anche alla formazione dei docenti curriculari. Per i docenti di sostegno sono previsti percorsi specifici, “la formazione iniziale dei docenti di scuola dell’infanzia e primaria e di scuola secondaria di primo e secondo grado deve obbligatoriamente prevedere almeno 30 crediti formativi universitari vertenti sugli aspetti della didattica per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali, come condizione necessaria per l’abilitazione all’insegnamento”. Alla stesura del Piano didattico personalizzato per gli alunni disabili e con bisogni speciali, sono inoltre tenuti a partecipare “all’inizio di ogni anno scolastico, prima dell’avvio delle lezioni, tutti i docenti delle classi cui sono iscritti alunni con bisogni educativi speciali certificati” si legge.
  •  La rivendicazione principale della Fish riguarda la continuità didattica, affrontata nell’articolo 6 della proposta di legge; è previsto per i docenti di sostegno a tempo determinato che prendono servizio in classi non terminali, un contratto biennale nella stessa sede (contratto legato però alla disponibilità della sede stessa, mentre i docenti a tempo indeterminato seguiranno gli alunni disabili per l’intero ciclo.
  •  Per quanto riguarda la certificazione della disabilità sono previste importanti novità che porteranno ad una semplificazione degli atti burocratici ad essa legati. La diagnosi funzionale ed il profilo dinamico funzionale saranno sostituiti dal Profilo di funzionamento alla cui formulazione parteciperanno anche le famiglie, un docente dell’alunno e gli operatori della Asl.
  •  Nell’articolo 8 della proposta si ribadisce la storica richiesta della Fish per la creazione “di un sistema di rilevazione dei dati che consenta in tempi reali di conoscere tra l’altro l’andamento del numero di alunni con disabilità, dei docenti per il sostegno didattico, il numero di assistenti per l’autonomia e la comunicazione, il numero di alunni nelle loro classi e quello degli stessi alunni con disabilità nelle classi”.
  •  I docenti di sostegno, il cui numero fino ad ora è stato ritenuto insufficiente, giungeranno nell’arco di un triennio a coprire i posti disponibili (con numero pari a 110.000). I posti confluiranno nell’organico di rete e tramite il Piano Annuale per l’inclusività saranno assegnati in base alle necessità.
  •  Per frenare l’aumento del numero dei ricorsi per indurre l’aumento del numero delle ore di sostegno si introdurrà l’obbligo della conciliazione, da esprimere in tempi molto brevi prima di agire in giudizio.

In una lunga intervista Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione con delega ai servizi per l’integrazione degli alunni disabili, ha spiegato che l’approccio che ha portato alle linee guida su cui si è basata la proposta di legge si basa sull’idea che l’azione educativa deve poter evidenziare e rafforzare tutto ciò che l’alunno con disabilità è o sarà in grado di fare in futuro e non su quello che non potrà mai fare.

 

 

fonte

 

http://www.orizzontescuola.it/news/riforma-del-sostegno-ecco-come-cambier-l-inclusione-dei-disabili-nella-scuola

L’autismo entra ufficialmente nei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), con un finanziamento ad hoc di 50 milioni di euro: i trattamenti e la diagnosi precoce di tale malattia, che in Italia secondo le stime colpisce tra le 300mila e le 500mila persone, saranno dunque garantiti gratuitamente, o con il pagamento di un ticket a tutti i cittadini e sull’intero territorio nazionale. Un grande passo avanti previsto nella legge sull’autismo approvata a luglio e che, per tante famiglie, si dovrebbe tradurre in un aiuto concreto. Saranno dunque garantiti gli esami e le attività per l’individuazione e la diagnosi precoce del disturbo – che determina deficit nella interazione e nella comunicazione sociale -, ma anche la valutazione multidisciplinare del paziente e gli interventi di riabilitazione e recupero delle capacità a diversi livelli e in relazione alla compromissione delle funzioni. L’obiettivo è quello di garantire un’assistenza uniforme in tutte le regioni poiché al momento, in Italia, l’assistenza alle disabilità intellettive segue percorsi a macchia di leopardo, con realtà di eccellenza e altre di non eccellenza. «Ma non possiamo più accettare – ha detto il ministro Beatrice Lorenzin – tali disparità nel Servizio sanitario nazionale».

Il Caregiver familiare potrebbe uscire dalla sua “invisibilità”, ricevendo anche in Italia quel riconoscimento giuridico che in gran parte dei Paesi europei ha già ottenuto da tempo.

Le legislazioni nei diversi Stati europei prevedono specifiche tutele per i caregiver familiari, tra le quali supporti di vacanza assistenzali, benefici economici e contributi previdenziali, come avviene in Francia, Spagna e Gran Bretagna ma anche in Polonia, Romania e Grecia. Non così invece in Italia, dove manca una piena coscienza e un’adeguata tutela per queste figure.

Per dare una risposta è stato presentato un ddl a prima firma Laura Bignami del Gruppo Misto, che verrà illustrato mercoledì 6 aprile a palazzo Madama, finalizzato a “riconoscere e tutelare il lavoro svolto dai caregiver familiari e a riconoscere il valore sociale ed economico per la collettività”.

Il ddl, in sette articoli, introduce “il riconoscimento della qualifica di caregiver familiari a coloro i quali in ambito domestico si prendono cura, a titolo gratuito, di un familiare o di un affine entro il secondo grado che risulti convivente ovvero di un minore dato in affidamento, che a causa di una malattia o disabilità necessita di assistenza continua, per almeno 54 ore settimanali”.

I caregiver familiari, spiega infatti la relazione introduttiva al ddl, vivono in una condizione di abnegazione quasi totale, che compromette i loro diritti umani fondamentali: quelli alla salute, al riposo, alla vita sociale e alla realizzazione personale. Non solo, l’impegno costante del caregiver familiare prolungato nel tempo può mettere a dura prova l’equilibrio psicofisico del prestatore di cure ma anche dell’intero nucleo familiare in cui è inserito.

I caregiver, inoltre, operano in un quadro sociale-assistenziale drammatico, caratterizzato da: continui tagli a livello nazionale e locale dei fondi destinati al sostegno delle famiglie in cui vive una persona non autosufficiente; costi sempre maggiori delle Residenze sanitarie assistenziali, che offrono servizi spesso non adeguati; parcellizzazione delle risposte assistenziali ormai rivolte solo ad alcune specifiche categorie.

A distinguere la proposta di Bignami è l’accento posto sulle tutele in quattro settori. Primo, previdenziale: è riconosciuta la “copertura di contributi figurativi, equiparati almeno a quelli da lavoro domestico, a carico dello Stato per il periodo di lavoro di assistenza e cura effettivamente svolto in costanza di convivenza, a decorrere dal momento del riconoscimento di handicap grave del familiare assistito. Tali contributi si sommano a quelli eventualmente già versati per attività lavorative, al fine di consentire l’accesso al pensionamento anticipato al maturare dei trenta anni di contributi totali”.

Secondo, tutela della salute: “sono riconosciute le tutele previste per le malattie professionali ovvero per le tecnopatie riconosciute ai sensi delle tabelle allegate al testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. Terzo, tutela assicurativa: “è prevista la copertura assicurativa a carico dello Stato con rimborso delle spese sostenute per la vacanza assistenziale nei periodi di impossibilità di prestare il lavoro di cura da parte dello stesso caregiver familiare, durante i periodi di malattia o infermità certificati, a tutela del suo diritto alla salute”.

Quarto, tutela del lavoro e del reddito: “Il caregiver familiare è equiparato ai soggetti beneficiari della legge 12 marzo 1999, n. 68, ai fini del riconoscimento del diritto al lavoro. Tale diritto deve essere garantito, su richiesta del lavoratore caregiver, anche utilizzando la modalità del telelavoro, con l’obbligo per il datore di lavoro di consentire il passaggio a mansioni che si prestino a tale modalità”.

Ad illustrare la proposta alle 17:30 al Senato, nella Sala Caduti di Nassirya, interverranno tra gli altri la senatrice Laura Bignami (Gruppo X), la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco (Gruppo Conservatori riformisti italiani), il senatore Aldo di Biagio (gruppo Ap -Ncd-Udc), la senatrice Loredana de Petris (gruppo Sinistra Italiana – Sinistra ecologia libertà), la senatrice Anna Finocchiaro (gruppo Pd) e Maria Simona Bellini, presidente del Coordinamento nazionale famiglie disabili. A moderare l’incontro Paola Severini Melograni, direttrice di Angelipress.

fonte

http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2016/04/05/disabili-arriva-ddl-caregiver-familiari-saranno-riconosciuti-per-legge_HQygK8xq5o745pHSCJa1wJ.html?refresh_ce

Ecco chi sono i docenti impreparati che distruggono la mente del bambino.

Sono sempre i più piccoli a stimolare in me la voglia di scrivere.

Le mamme mi chiedono, mi consigliano, mi ascoltano, ma la mia carta vincente è sentire i bambini e gli adolescenti. Loro sono le mie energie, la mia creatività, la mia immaginazione e la mia voglia di fare sempre meglio. È per questo che è a loro che passo la parola, che da loro traggo spunti e a loro inevitabilmente torno ogni giorno della mia settimana.

Questo articolo lo scrivo perché attraverso me possano dar voce al loro urlante silenzioso e doloroso pensiero.

Circa un anno fa, di questi tempi, scrissi indignata “Ecco come distruggiamo la mente dei nostri bambini”, considerando una brutta connivenza l’accordo tra insegnanti, genitori e medici, nel diagnosticare malattie inesistenti sulla pelle di tutti quei bambini a cui la vita ha tolto qualcosa in termini di affettività, attenzione, relazione, amicizia, comprensione, capacità d’ascolto, di rispetto dei propri tempi, delle proprie competenze, del proprio essere unici e irripetibili.

Oggi, questo articolo lo scrivo invece per rendere giustizia alla disperazione delle numerose famiglie che trovano ancora la forza di scrivermi e cercare aiuto alla loro impotenza nel dover fronteggiare docenti ignoranti, presuntuosi e privi di capacità didattiche, che, con la complicità delle istituzioni, si arrogano il diritto di fare diagnosi sui loro figli e impongono ai genitori percorsi per una valutazione psichica.

Vi sembra eccessivo quello che ho scritto? Come fanno ad imporlo? Semplice! Con il subdolo e meschino ricatto di non seguire più il bambino come fanno con gli altri alunni della classe; ignorando la famiglia; mettendo voti bassi anche quando gli studenti meritano di più; terrorizzandoli nel lavoro svolto, perché è troppo corto, troppo lungo, troppo banale, troppo facile o troppo difficile; perché non stanno fermi, non dicono la parola giusta al momento giusto, si alzano dal banco troppo spesso ecc.; terrorizzandoli con i compiti, perché se non riescono a finirli, li costringono a chiedere ai genitori di poter restare a casa il giorno successivo. Ovvero, cancellando metaforicamente l’alunno dalla classe. E non c’è niente di più subdolo e meschino di ciò che non può essere concretamente visto.

Con la menzogna “dell’aiuto”, con l’ipocrisia “del fare per”, centinaia di migliaia di bambini tutti gli anni vengono sottoposti, su richiesta del docente, a percorsi psichiatrici per la valutazione del loro potenziale cognitivo. Non leggono ancora come la maggior parte della classe? Allora signora suo figlio potrebbe essere affetto da dislessia; non ha ancora imparato le tabelline? Allora signori il vostro bambino potrebbe essere affetto da discalculia; scrive con una pessima calligrafia? Allora cari genitori potrebbe essere affetto da disgrafia; è più vivace degli altri bambini? Allora signore suo figlio potrebbe avere la sindrome da iperattività, e così via.

Ho conosciuto diversi insegnanti in questi anni di docenza in varie scuole: c’era quello stressatissimo perché era allergico agli adolescenti, in quanto quel mestiere era per lui un ripiego perché il lavoro che aveva sempre desiderato non è riuscito a raggiungerlo e poi, sapete… bisogna pur campare!; quella isterica perché il marito l’aveva lasciata; quella ipocondriaca che pretendeva che tutti i bambini ogni due ore si lavassero le mani, che non la toccassero e che su tutti i banchi ci fosse sempre un pacchetto di fazzoletti; ho incontrato quella con l’alterazione dell’umore, un momento prima rideva e scherzava e subito dopo urlava come un’isterica; quello che pretendeva che tutti gli studenti facessero lo stesso lavoro in tempi brevissimi; quello che diceva le parolacce e poi metteva le note agli studenti che facevano altrettanto; quella che non guardava mai in faccia lo studente quando gli parlava, o quella che lo chiamava per il colore dei capelli o degli occhi o per un oggetto che portava addosso, annullandolo letteralmente; quello che fumava nonostante i divieti, e quella che entrava in classe a fare l’appello e poi spariva per tutta l’ora. Poi ho conosciuto tante tante depresse e depressi: quelle che si mettevano a piangere davanti ai bambini; quelli che stavano sempre con il cellulare in mano… E poi tutti gli altri docenti: quelle/i che non sanno spiegare; non sanno capire; non sanno gioire; non sanno relazionarsi; non sanno ascoltare; non sanno ridere con i bambini; non sanno salutare per primi; non sanno vedere i loro stessi movimenti di rabbia, frustrazione e pertanto non sanno gestirli, ma li riversano sugli studenti; non sanno evitare rigorosamente l’effetto Pigmalione; non conoscono minimamente i propri scolari neppure a fine anno; non sanno risolvere le questioni difficili che si creano in classe; non sanno responsabilizzare gli alunni; non sanno lasciarli liberi di pensare; ma… badate bene, proprio loro sanno fare diagnosi medica!

Non solo, questi docenti pretendono che le loro richieste di medicalizzazione siano soddisfatte, altrimenti chiamano l’assistente sociale. E questo lo fanno perché, non essendo capaci nel proprio lavoro devono poter scaricare sul bambino o l’adolescente la loro incompetenza.

Abbiamo già più volte detto che queste presunte “patologie” non esistono; è stato più volte dimostrato che questi ragazzi e bambini debitamente aiutati pedagogicamente a recuperare una carenza causata dal mondo adulto (così come sopra descritto), posso raggiungere, anche in breve tempo, i livelli della maggioranza. Ma le istituzioni preferiscono medicalizzare anziché formare i docenti e far salire in cattedra solo i più competenti. I docenti incompetenti naturalmente, preferiscono imporsi alla famiglia e dettar legge su questioni a loro letteralmente sconosciute, fino a quando questi bambini non li avranno completamente distrutti e potranno finalmente dire: “Io ve lo avevo detto che aveva un problema!”.

Questi insegnanti ci dicono che hanno fatto corsi di aggiornamento, ossia che li hanno preparati a valutare tutte queste patologie. Naturalmente la maggior parte di questi corsi di aggiornamento sono fatti da case editrici che hanno grossissimi interessi economici nella vendita di libri compensativi per studenti e informativi per docenti. Ma nei corsi di aggiornamento agli insegnanti (questi insigni professori di psicologia o psichiatria chiamati dall’editore compiacente), hanno mai spiegato nei loro corsi quanto danno può fare un docente depresso? Quanto danno può fare un insegnante che non ascolta, o uno che è freddo e razionale, uno che sa solo etichettare, uno che denigra e ridicolizza chi è più indietro, uno che colpevolizza, uno che ha già deciso che quel bambino deve fare un percorso medico perché lui ne è convinto? Glielo hanno insegnato a questi docenti quanto danno provoca tutto ciò sulla capacità cognitiva del bambino? Glielo hanno spiegato prima di fare sentenze e diagnosi quanto pesa il suo comportamento sulla qualità della vita di un bambino? Glielo hanno detto quanto ferisce, quanto danneggia il pensiero di un bambino quando si sente escluso dall’insegnante? Glielo hanno spiegato quanto danneggia un bambino o un adolescente quando si sente diverso dagli altri bambini/adolescenti della classe? Glielo hanno insegnato quanto pesano su bambini e adolescenti le parole poco pensate (dette dal docente), e quanto incidono sull’autostima e la fiducia in se stessi? Glielo hanno detto perché, carenti di autostima e fiducia in se stessi, poi da grandi, questi bambini, dovranno frequentare corsi e libri di automotivazione per raggiungere i propri obiettivi?[1] I corsi di aggiornamento che si fregiano di insegnare ai docenti come “diagnosticare” presunte patologie, e che si avvalgono degli psicologi (che dovrebbero conoscere la psiche dei nostri studenti e che pertanto dovrebbero essere capaci di rispondere a tutte le domande che mi sono posta), hanno aggiornato i nostri docenti su tutte queste tematiche? O si sono limitati a fare gli interessi dell’editore? L’università li ha preparati i nostri docenti a tutto questo? Gli insegnanti, dal nido alla scuola secondaria di secondo grado, la conoscono tutti la pedagogia?

La maggior parte di questi bambini, una volta intrapreso il percorso medico, si rifiuta di andare dal logopedista (oramai prassi consolidata di “cura”, ma quale cura se non c’è malattia?), ma noi lo forziamo fino a farlo diventare nervoso e irascibile, perché nessuno ha capito che se non cambia il modo di relazionarsi dell’adulto, lui non potrà cambiare[2]. La maggior parte di loro ha un calo drastico del rendimento dopo aver percorso un iter diagnostico, ma continuano a dire che è il suo disturbo cognitivo che sta aumentando, quando loro sono i primi artefici di tale disturbo. La maggior parte di questi bambini e adolescenti, ha solo bisogno di una realtà affettiva che sappia comprendere e accettare i loro specifici tempi, le loro specifiche capacità cognitive e le sappia guidare pedagogicamente per un giusto e corretto sviluppo.

Poi certo, dobbiamo anche permettere a questi docenti di lavorare bene con gli studenti, e questo lo possono fare solo se le classi non sono un “pollaio”; ma anche se lo fossero, questo non li esime da un impegno specifico verso chi dimostra di averne più bisogno. Questo non li esime dall’evitare di fare diagnosi, e/o dall’attuazione di una pedagogia dinamica, o piuttosto nel chiedere alla famiglia (come si faceva un tempo), di farlo seguire da un’insegnante a casa (non una/un logopedista che non sa assolutamente nulla di pedagogia e didattica!). Perché questi bambini e ragazzi, è solo di questo che hanno bisogno, di essere seguiti un po’ più degli altri, di essere rivalutati nel rapporto, di essere capiti.

La nostra società e la nostra scuola ha bisogno solo di docenti più competenti e soprattutto più umani, dove per umano intendo capace di pensare agli studenti prima ancora che alla facilità nello svolgere il proprio lavoro; più umani significa lavorare per passione e competenze piuttosto che per ripiego o alternativa; più umani significa guardare agli altri senza il pregiudizio, il conformismo o il razzismo che spesso nasce in certi docenti ogni volta che vedono una diversità.

Dr.ssa Tiziana Cristofari

 

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http://www.figlimeravigliosi.it/2015/10/i-docenti-impreparati-che-distruggono.html

Sono una pedagogista-docente e mi occupo di formazione oramai da diversi anni. Troppo spesso però vedo una situazione che non posso più tacere, anche se non è la prima volta che ne parlo.

Sono molto indignata per la facilità con cui i nostri bambini vengono giudicati e “torturati” psicologicamente. E non sto esagerando! Perché la tortura non è solo quella fisica, ma anche e ai nostri giorni soprattutto, quella psicologica.

Viviamo in una società molto superficiale, dove i tempi frenetici e la poca pazienza che abbiamo nei confronti dei nostri bambini e delle nostre bambine, ci spingono a conclusioni affrettate sulle loro potenzialità e capacità cognitive, purché ci sollevino dall’incombenza di seguirli negli studi.

Troppo spesso i genitori mi portano i loro figli emotivamente avviliti, psicologicamente affranti, demotivati e senza più la minima autostima di se stessi.

Arrivano da me dicendomi che il loro bambino o la loro bambina ha difficoltà nello studio; che piange perché non vuole studiare; che non vuole andare a scuola. Me li portano dicendomi che l’insegnante gli ha detto che sicuramente ha qualche problema cognitivo, e quando arrivano da me hanno già fatto percorsi con il logopedista e il più delle volte, il medico, gli ha certificato un ritardo nell’apprendimento.

Ma sapete una cosa? Nel 99% dei casi, il bambino o la bambina non ha niente, recuperando nel giro di un anno scolastico tutte le carenze!

Mi sono chiesta più volte se voi vi foste mai domandati come reagiscono i vostri figli a tutte queste chiacchiere non vere sulla loro capacità di apprendimento. Vi siete mai chiesti cosa provano? Come stanno? Cosa pensano di tutte quelle ricerche mediche e quelle esercitazioni alienanti, ai quali vengono sottoposti anche solo perché hanno una pessima scrittura? Vi siete mai chiesti guardando la calligrafia di un medico se anche lui fosse disgrafico?

Ve lo dico io cosa pensano i nostri figli! Pensano di essere inferiori, di essere diversi, stupidi, non capaci come i loro compagni di classe. E la loro psiche lentamente cambia e diventa brutta. Perdono la loro autostima, diventano tristi, paurosi e a scuola non rendono più, non si sentono capaci e si convincono di non riuscire negli studi; dentro di loro si domandano perché devono continuare a studiare; perché devono andare a scuola, a cosa serve… perché la scuola non brucia!

Io sono molto indignata! con insegnanti impreparati nella didattica che si sentono in diritto di diagnosticare senza averne la competenza.

Sono molto indignata! con la connivenza dei medici psichiatri che devono trovare necessariamente un’anomalia in un bambino che ha solo bisogno di essere rispettato nei suoi tempi di apprendimento, mentre la loro diagnosi è basata su statistiche (vi ricordo che Albert Einstein ha mostrato la sua genialità solo all’università, risultando terribilmente carente in tutti i precedenti corsi di studi, soprattutto in matematica; e nonostante oggi si dica che fosse dislessico, niente e nessuno allora, fortunatamente, gli ha impedito di credere in se stesso e di diventare ciò che tutti noi conosciamo). Vogliamo parlare dei logopedisti? Che uccidono il pensiero del bambino tediandolo con tanti esercizietti che allontanano sempre più il piccolo dalla scuola? E tutto questo pur di non ammettere che quel paziente non ha bisogno del loro aiuto, ma solo di una efficace didattica che loro ignorano completamente.

Ma è tutto un sistema di scarica barile: l’insegnante ai genitori, i genitori al medico, il medico al logopedista e il logopedista sul problema diagnosticato dal medico che purtroppo si può migliorare, ma non curare; e non c’è la cura semplicemente perché non c’è la malattia!

Ma sono indignata anche con voi genitori! Che non avete la pazienza di ascoltarli i vostri figli; che li imboccate come se fossero sempre piccoli, senza svezzarli nel rapporto e nella loro continua e costante crescita di competenze. E questo è un errore grave, molto grave, perché non permettete loro di crescere, di sviluppare indipendenza, di conquistarsi quel pezzettino di mondo a scuola, che solo a loro appartiene.  Non avete voglia di seguire e capire i cambiamenti che la scuola li costringe a sviluppare, non avete la voglia di capire che il vero problema potrebbe essere nel rapporto con voi, con la maestra o con i compagni di classe. Perché è così: quasi sempre il problema scolastico ha le sue profonde radici nel rapporto umano.

Allora non distruggiamo la mente e la vitalità dei nostri figli, abbiate il coraggio e l’umiltà di valutare il vostro rapporto, di considerare quello che la maestra ha con vostro figlio o vostra figlia, prima ancora di intraprendere un percorso diagnostico, che in quanto tale, nella mente del bambino, riporta sempre e comunque a una malattia e quindi a una diversità dai compagni di scuola. Ricordandovi inoltre che oggi, quella che viene comunemente definita dislessia, il più delle volte è un abuso di terminologia e medicalizzazione su bambini sanissimi per questione di business. Non confondiamo le difficoltà didattiche e di rapporto con la scusa della malattia, una malattia che nessuno ha organicamente riscontrato e che si basa solo su statistiche. Eviteremo così di crescere bambini insicuri, ribelli, aggressivi, svogliati, tristi, spaventati e senza autostima.

 

Dr. Tiziana Cristofari

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http://www.figlimeravigliosi.it/2014/10/ecco-come-distruggiamo-la-mente-dei.html 

Voglio solo formulare alcune domande che la famiglia dovrebbe porsi sostituendole a quelle sulla matematica o sulla storia. Dovrebbe chiedersi quali sono i desideri di quel figliolo, quale rapporto ha stabilito con i compagni e, in particolare, come egli viva la relazione dentro il gruppo dei pari età. Dovrebbe ancora domandarsi come egli percepisca i propri genitori, se all’interno di un rapporto affettivo o se non siano ridotti a cerberi con cui doversi confrontare attraverso menzogne. Chiedersi se egli non sia giunto ad applicare la strategia del doppio binario o della doppia vita, per cui ogni cosa ha una versione a casa, una diversa fuori di casa e magari una terza a scuola. Uno sdoppiamento o una triplicazione di comportamenti per adeguarsi alle situazioni differenti. Tutto questo viene ignorato mentre padre e madre diventano una succursale della scuola e i temi familiari sono sostituiti dalle guerre puniche o dal secondo principio della termodinamica che pone in serio pericolo la promozione in fisica. Credimi, non se ne può più di giudizi scolastici che passano poi dentro la famiglia e la fanno sentire a sua volta giudicata dalla scuola, come se il problema la riguardasse direttamente, e così tutto gira attorno alla scuola del giudizio, dell’invasione. Voglio essere chiaro: niente giudizio, niente compiti a casa. E non deve sembrarti una presa di posizione utopica e magari rivoluzionaria, semplicemente è coerente con un passaggio di prospettiva dal singolo alla classe come centro del tuo lavoro e dal limitarsi a inculcare la tua materia all’insegnare invece a vivere attraverso gli strumenti propri della scuola in cooperazione con altri istituti, la famiglia in primis. Adesso però per simmetria devo accennare alle interferenze che la famiglia esercita sulla scuola e sono altrettanto pedanti e guidate dal successo parziale o mancato del proprio figlio, in quella scuola, dentro quella classe. Se ottiene un giudizio eccellente, la famiglia non cercherà alcun contatto con la scuola: si limiterà a recitare ovunque il merito del figlio che è anche merito della famiglia che trasmette l ‘amore della cultura e il senso del dovere. Se invece il giudizio è negativo o insoddisfacente, allora il legame famiglia-scuola si attiva e gli incontri tra gli insegnanti e i familiari mostrano il dissenso per come è valutato il ragazzo: seguendo strategie diverse. La strategia di attacco è di solito messa in atto dalle famiglie borghesi, con buon livello economico: gli insegnanti sono visti come persecutori dei figli. La strategia del lamento è propria di famiglie economicamente emergenti che vedono nella scuola la pedana per il riscatto sociale del figlio: riconoscono che non ha reso, ma che è necessario considerare la sua salute fragile, a cui si aggiunge sullo sfondo il soffio al cuore del padre o una nonna moribonda. Fanno promesse di recupero e si sostituiscono al figlio come se fosse lui ad avere deciso di vivere da trappista da quell’incontro in poi. La terza strategia è quella della famiglia che non è attenta alla scuola e che anzi considera il periodo dell’insegnamento dell’obbligo come una disgrazia poiché impedisce di utilizzare il figlio per raggranellare in qualsiasi modo qualche euro migliorando così il basso tenore di vita. Una famiglia in cui il figlio è ridotto a possibile forza di guadagno e, anche se è poco, è sempre molto rispetto al nulla e alla perdita di tempo a scuola. La quarta strategia non esiste, mentre dovrebbe essere la sola accettabile. Mi riferisco alla famiglia che incontra gli insegnanti per parlare con loro del piano educativo, per ipotizzare una collaborazione su alcuni temi in cui la famiglia fatica a ottenere dei risultati, mentre forse con l’ausilio della scuola le cose potrebbero andare meglio. Un incontro per valutare la percezione che il figlio ha dell’autorità; per considerare la sua introversione o l’eccessivo bisogno di protagonismo; per individuare quei punti in cui sarebbe bene coordinare l’azione educativa, poiché i limiti che un insegnante può intravedere riguardano gli affetti su cui la famiglia ha strumenti più efficaci, mentre la scuola può facilitare la soluzione di difficoltà che si manifestano a casa. L’insegnante deve svolgere il proprio impegno dentro la scuola, il padre e la madre dentro la famiglia, e tutti si devono incontrare per mettere a punto strategie e piccoli interventi che aiutino il processo globale dell’educazione. Credo che siano utili i Consigli di classe dei docenti, perché si possono raccogliere e scambiare osservazioni da punti di vista differenti e si possono fare paragoni tra il comportamento del singolo e della classe nei confronti di questo o quell’insegnante. Una collaborazione aperta permetterebbe di coordinare gli interventi che sono sempre diretti a insegnare a vivere, il che prevede il rispetto delle regole, la percezione del gruppo come unità e come solo elemento sottoposto a giudizio. Ma ora voglio rientrare dentro la classe per esprimere il mio parere sui tuoi alunni, o meglio su alcune caratteristiche che li evidenziano rispetto agli alunni che magari avevi solo qualche anno fa.

 

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http://www.iacpignataromaggiore.it/caro%20insegnante%20Stralcio%203.pdf

Luglio 9, 2014 Margherita Pellegrino

Lettera di una professoressa «sbigottita» dalla tendenza del nostro sistema educativo ad attribuire ogni difficoltà degli alunni a ipotetici disturbi mentali. Le nostre scuole stanno diventando ospedali psichiatrici?

Riceviamo dalla professoressa Margherita Pellegrino, insegnante a Segrate (Mi), e pubblichiamo

Egregio Direttore, sono rimasta sbigottita: «Oltre 90 mila alunni con DSA tra gli anni scolastici 2010/2011 e 2011/2012 , 24.811 certificazioni in più (+37 per cento). L’incremento più significativo alle superiori, il numero più alto di studenti alle medie» (Ministero dell’Università, dell’Istruzione e della Ricerca).

Un trend in salita come si evince anche dall’allarme che è stato lanciato a Pisa: «La dislessia rischia di diventare un’emergenza sociale. Nel 2013 all’ ASL 5 sono arrivate 530 richieste di valutazione per DSA che hanno confermato 343 diagnosi. In pratica, si è registrata una richiesta di diagnosi ogni circa 641 persone e un caso di Dsa ogni 990 abitanti» (OrizzonteScuola.it)

Da quando è stata approvata la legge 170/2010 sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento, i DSA sono entrati ufficialmente nella scuola segnando una svolta nella didattica, e questi ne sono i risultati.

Sono aumentati i corsi di aggiornamento ai docenti per indottrinarli sull’esistenza e individuazione di questi disturbi, così la soluzione agli errori commessi dagli alunni in fase di apprendimento, non è individuarne la causa, correggerli e far fare esercizio, come facevano i nostri insegnanti, ma indirizzare il genitore dell’alunno dal neuropsichiatra per una valutazione di DSA sul figlio e questo alla fine della seconda elementare, quando non viene fatto già nei primi anni della scuola dell’infanzia.

Attribuire gli errori dell’alunno ad un “disturbo” dovuto ad ipotetici “difetti di migrazione cellulare” secondo gli esperti, ma poi fare diagnosi attraverso test di lettura, scrittura che ben poco hanno di scientifico, dire ad un bambino che il suo cervello non è come quello di tutti gli altri sulla base della lettura di una lista di parole, lista di non parole , di un dettato, di risposte alle tabelline, calcolandone i tempi di esecuzione, non sono cose da poco. Dire che di questi disturbi non si guarisce, che non sarà mai in grado di leggere e/o scrivere e fare i calcoli correttamente significa inculcargli l’idea di incapacità, significa negargli la vera istruzione: non insegnargli a leggere, scrivere e far di conto, che è la funzione primaria della scuola elementare.

Basta che un’insegnante non sappia insegnare per creare un alunno DSA.

Non si va ad indagare sui metodi didattici utilizzati dall’insegnante. Una delle cause di così tanti errori e difficoltà degli alunni è stata individuata, ad esempio, nel Metodo Globale, ora utilizzato da molti maestri nella scuola elementare; le classi pollaio vanno bene: è l’alunno che è affetto da “disturbi”.

Nel Manuale Statistico e Diagnostico, il testo utilizzato per le diagnosi delle malattie mentali, dove tra l’altro sono riportati anche i DSA, tutte le malattie sono indicate come disturbi, quindi di che cosa stiamo parlando?

Nel solo 2011 sono stati erogati ben 705.308,81 euro da Enti Pubblici (istituti scolastici, ASL) all’Associazione Italiana Dislessia per attività formativa (Bilancio AID 2011). «Presso strutture private alcuni genitori hanno speso anche 1000 euro per una diagnosi DSA» (AID, comumicato stampa, marzo 2012).

Una seduta dallo psicologo o logopedista costa circa 80 euro, in alcune regioni viene anche riconosciuta agli alunni DSA un’indennità di frequenza, un disborso mensile di 238,00 euro più 10 euro per ogni corso riabilitativo frequentato, oltre all’aumento degli assegni familiari. Che cosa sta venendo finanziato? In che cosa sta investendo la scuola? In 90 mila alunni certificati DSA esclusi dalle prove INVALSI, perché la loro partecipazione avrebbe abbassato la media nazionale dei risultati delle prove?

Il problema è didattico e la soluzione è nella didattica.

Se 20, 30, 40 anni fa qualcuno avesse acceso i fari sui nostri errori e comportamenti, a quanti di noi e dei nostri compagni sarebbero stati diagnosticati DSA o ADHD? Eppure ce l’abbiamo fatta, le nostre carriere non sono state stroncate, i nostri sogni non sono stati buttati nella spazzatura.

Quella che è stata fatta è una Riforma strisciante della Didattica, studiata astutamente, e supportata da un accurato piano di marketing. Come è stato apertamente dichiarato dagli stessi artefici di campagne mediatiche che hanno portato all’approvazione di questa legge in uno dei tanti convegni sul soggetto: «In realtà siamo indietro con la comprensione di quelli che sono i disturbi specifici dell’apprendimento… la teoria che aiuta a capire è ancora tutta da costruire tuttavia la legge ci ha dato questa opportunità cioè di cambiare la cultura… ci sono sicuramente poche scuole che giudicano bene il cambiamento della didattica ma sono convinto… che con il contributo di tutti questo percorso di cambiamento culturale sarà rapido e non ci vorranno troppe generazioni» (2° convegno nazionale scuola e DSA: riflessioni e proposte).

Bisogna fare un passo indietro su questa legge se non vogliamo creare un generazione di incapaci, insicuri, ignoranti e facilmente manovrabili, come ha scritto Frank Furedi, Professore di Sociologia: «Se l’attuale tendenza continua, presto ci sarà poca differenza tra una scuola e una clinica per malattie mentali… se consideriamo le sfide della vita come un’esperienza cui i bambini non possono far fronte, i ragazzi raccoglieranno il messaggio e le considereranno con terrore. Tuttavia, se la finiamo di giocare a fare il dottore ed il paziente e aiutiamo invece i bambini a sviluppare la loro forza attraverso l’insegnamento creativo, allora i piccoli inizieranno a tener testa alle situazioni… proteggere i bambini dalla pressione e dalle nuove esperienze rappresenta una mancanza di fiducia nel loro potenziale di sviluppo attraverso nuove sfide». (F. Furedi, The Express, 20 maggio 2004).

Prof.ssa Margherita Pellegrino

 

Fonte

http://www.tempi.it/scuola-diagnosi-dsa-figli-tutti-dislessici-insegnanti#.VuXyYfnhCUl

La scorsa primavera l’esecutivo si era appellato ai giudici amministrativi in seguito alle sentenze del Tar del Lazio, che avevano accolto i ricorsi delle associazioni dei portatori di handicap contro il nuovo sistema di calcolo che somma le pensioni di invalidità al reddito. Facendo perdere il diritto ad altri importanti benefici.

L’indennità di accompagnamento per i disabili non può essere conteggiata come reddito. Parola del Consiglio di Stato che boccia la posizione del governo Renzi sul nuovo Isee. La scorsa primavera l’esecutivo si era appellato ai giudici amministrativi in seguito alle sentenze del Tar del Lazio, che avevano accolto i ricorsi delle associazioni dei portatori di handicap contro il nuovo sistema di calcolo che somma le pensioni di invalidità al reddito. Facendo perdere il diritto ad altri importanti benefici. “Deve il Collegio condividere l’affermazione degli appellanti incidentali – si legge nella sentenza depositata lunedì 29 febbraio – quando dicono che ricomprendere tra i redditi i trattamenti indennitari percepiti dai disabili significa allora considerare la disabilità alla stregua di una fonte di reddito – come se fosse un lavoro o un patrimonio – e i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni non un sostegno al disabile, ma una ‘remunerazione’ del suo stato di invalidità oltremodo irragionevole, oltre che in contrasto con l’art. 3 della Costituzione“. In pratica, le provvidenze economiche previste per la disabilità non possono e non devono essere conteggiate come reddito.

Tutto era nato con il varo del nuovo Isee da parte del governo Letta, poi entrato in vigore sotto l’esecutivo Renzi, dopo che un decreto del ministero del Lavoro aveva predisposto i nuovi modelli per la dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) a fine Isee. Le modifiche, pensate anche per rendere il modello meno permeabile a elusioni e abusi, hanno coinvolto milioni di persone, visto che la dichiarazione Isee è indispensabile per l’accesso a prestazioni sociali agevolate e aiuti per le situazioni di bisogno. Uno degli aspetti più criticati era proprio l’inserimento dei contributi ricevuti a fine assistenziale nel conteggio nel reddito, cosicché per esempio il titolare di assegni e altre indennità sarebbe risultato in molti casi “ricco” e avrebbe paradossalmente perso il diritto a ulteriori aiuti o per esempio l’accesso alle case popolari. “Io sono madre di un ragazzo costretto a letto che ha diritto a due indennità, come invalido civile e come non vedente – aveva raccontato a ilfattoquotidiano.it Chiara Bonanno, una delle coordinatrici di Stop al nuovo Isee -. Ora questi soldi faranno reddito e avranno conseguenze sulla mia richiesta di affitto agevolato nelle case popolari, nonostante abbia lasciato il lavoro per assistere mio figlio. Noi siamo considerati più ricchi rispetto a una famiglia senza handicap, con una madre vedova e un figlio che risultino senza occupazione, magari perché lavorano in nero. Il problema è questo”.

Sono casi come questo che hanno dato il via ai ricorsi accolti dal Tar ormai un anno fa. I giudici non avevano ritenuto idonee le franchigie introdotte dal governo proprio per abbattere la parte di reddito derivante dai contributi di tipo assistenziale, previdenziale e indennitario. Per questo era stata annullata quella parte del decreto del presidente del Consiglio che considerava come parte del “reddito disponibile” tutti quei proventi “che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie”. Annullata anche la parte di regolamento del nuovo Isee che prevedeva franchigie variabili a seconda che il disabile sia maggiorenne o minorenne: “Non si individua una ragione – recitava la sentenza – per la quale al compimento della maggiore età una persona con disabilità sostenga automaticamente minori spese ad essa correlate”.

Ma il governo e, in particolare, la presidenza del Consiglio e i ministeri del Lavoro e dell’Economia, non si sono adeguati ai rilievi del tribunale amministrativo e, anziché modificare il decreto, hanno deciso di presentare ricorso al Consiglio di Stato. “Sentiti gli uffici competenti dell’amministrazione finanziaria in merito alla richiesta di rafforzare le misure agevolative in favore dei soggetti disabili e delle loro famiglie – aveva spiegato in aula il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti – giova ribadire che qualsivoglia iniziativa normativa dovrà necessariamente tener conto degli effetti negativi sui saldi di finanza pubblica per i quali è opportuno reperire idonei mezzi di copertura finanziaria”. Per questo motivo “la Presidenza del Consiglio dei ministri ha manifestato di condividere la posizione espressa dal ministero (del Lavoro e delle politiche sociali) in ordine all’opportunità di proporre appello dinanzi al Consiglio di Stato, previa sospensione dell’esecutività delle sentenze impugnate”.

“Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi si trova già così com’è in uno svantaggio, al fine di pervenire in una posizione uguale rispetto a chi non soffre di quest’ultimo ed a ristabilire una parità morale e competitiva – spiega oggi il Consiglio di Stato -. Essi non determinano infatti una “migliore” situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale, prima o anche in assenza di essa”. Pertanto, “la «capacità selettiva» dell’Isee, se deve scriminare correttamente le posizioni diverse e trattare egualmente quelle uguali, allora non può compiere l’artificio di definire reddito un’indennità o un risarcimento, ma deve considerarli per ciò che essi sono, perché posti a fronte di una condizione di disabilità grave e in sé non altrimenti rimediabile”.

Quanto al sistema delle franchigie, i giudici amministrativi di appello sottolineano come “non può compensare in modo soddisfacente l’inclusione nell’Isee di siffatte indennità compensative, per l’evidente ragione che tal sistema s’articola sì in un articolato insieme di benefici ma con detrazioni a favore di beneficiari e di categorie di spese i più svariati, onde in pratica i beneficiari ed i presupposti delle franchigie stesse sono diversi dai destinatari e dai presupposti delle indennità”. Infine “non convince il temuto vuoto normativo conseguente all’annullamento in parte qua di detto DPCM, in quanto, in disparte il regime transitorio cui il nuovo Isee è sottoposto, a ben vedere non occorre certo una novella all’art. 5 del DL 201/2011 per tornare ad una definizione più realistica ed al contempo più precisa di «reddito disponibile». All’uopo basta correggere l’art. 4 del DPCM e fare opera di coordinamento testuale, giacché non il predetto art. 5, c. 1 del DL 201/2011 (dunque, sotto tal profilo immune da ogni dubbio di costituzionalità), ma solo quest’ultimo ha scelto di trattare le citate indennità come redditi”.

FONTE

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/29/nuovo-isee-consiglio-di-stato-boccia-governo-su-disabili-indennita-e-un-sostegno-non-una-remunerazione-per-invalidita/2506648/